Scrivi con lo scrittore

Scrivi con lo scrittore è stata una rassegna di incontri con scrittori nelle biblioteche di Bologna a cui ho partecipato nel 2005 e 2006.

Alla fine di ogni incontro, lo scrittore donava un incipit su cui era possibile scrivere un racconto. I racconti selezionati sono stati inclusi in una antologia pubblicata da Giraldi Editore.

Il mio racconto “L’intervista” è stato pubblicato sull’incipit di Andrea Poletti.

L’intervista

Dalle sue lucide vetrate che si affacciavano sulla Avenue of Americas, al ventunesimo piano di un bel palazzo postmoderno dalle linee slanciate, sinuose ed affusolate come sarebbero piaciute a Gaudì, si vedevano Bryant Park con la fontana al centro e il Pronto Pasta all'angolo con la quarantaduesima.

Era una giornata scura e fredda, nonostante fosse appena iniziata la primavera. Una coltre di nubi spesse sovrastava la città, tracce di foschia sfilacciata si spingevano fra le cime dei grattaceli. Le facciate dei palazzi amplificavano il grigiore, riflettendo decine di volte la luce spenta.

Lo studio era riempito da una penombra persistente, accentuata dal colore austero degli arredi di foggia inglese. L’unica macchia di colore vivo presente nella stanza era costituita dalle orchidee. Le piante, in piena e rigogliosa fioritura, erano stipate su uno scaffale di ferro che occupava buona parte dell’ampia vetrata.

Gocce occasionali disegnavano scie effimere sul vetro, a pochi centimetri dall’uomo in piedi dietro alla scrivania. Era alto, sulla sessantina, vestito di un completo scuro molto classico. I capelli bianchi e corti contrastavano piacevolmente con il viso abbronzato, in cui le rughe scavavano una mappa ben definita. L’espressione al momento era seria, come se stesse riflettendo su un pensiero spiacevole e sfuggente. Stava fermo lì da diversi minuti, osservando il traffico silenzioso che fluiva sotto di lui.

Due colpi secchi alla porta annunciarono l’entrata della segretaria.

Una voce sommessa disse: «Signor Russell, la persona che aspettava è arrivata, l’ho fatto accomodare in biblioteca.»

«Grazie Susan, sarò da lui in venti minuti, gli chieda di attendere lì, per favore…» rispose senza voltarsi.

La porta si richiuse con un tonfo ovattato, lasciandolo di nuovo ai suoi pensieri. Anche se il lavoro lo incalzava, aveva deciso di concedersi un po’ di tempo per riflettere, prima dell’appuntamento. Per un attimo pensò alle tre locandine del nuovo spettacolo che aveva sulla scrivania: avrebbe deciso quale fosse la migliore dopo l’incontro, quando sarebbe stato più sereno e avrebbe potuto dedicare tutta la sua attenzione alla scelta.

Il flusso dei pensieri tornò a scorrere come le auto in strada: avvertiva ancora la vaga inquietudine che lo aveva preso da quando aveva ricevuto la telefonata del giornalista. Non amava parlare pubblicamente delle sue passioni private, era qualcosa di molto diverso dal promuovere gli spettacoli teatrali di cui era il produttore o partecipare alle numerose cene di gala a cui era spesso invitato.

Quello era il motivo razionale per cui avrebbe preferito non accettare quell’offerta. In fondo non era obbligato a concedere l’intervista e di sicuro non avrebbe tratto alcun vantaggio dalla cosa. Ma ormai era tanta l’abitudine alle relazioni pubbliche che aveva seguito il primo impulso e aveva combinato l’appuntamento.

Poi, però, c’era quello strano senso di disagio che si era annidato in un angolo della memoria e si manifestava ogni volta che ripensava all’intervista.

Per tranquillizzarsi, aveva cercato informazioni sulla persona che avrebbe incontrato e sugli articoli che aveva scritto. Si chiamava Charles Page, era più giovane di lui di una decina d’anni e sembrava un professionista serio: laureato in biologia, collaborava con le maggiori riviste americane di giardinaggio e botanica, in particolare su argomenti legati alle piante tropicali.

I risultati delle ricerche avevano stemperato l’inquietudine e si era detto molte volte che la cosa sarebbe stata anche stimolante, ma ora che l’incontro era imminente quella sensazione simile ad un presagio di sventura si presentava ancora.

Decise che era ora di andare: stava facendo attendere troppo il suo ospite. Mentre usciva dalla stanza passò, come sua abitudine, vicino alle piante. Alla fine dell’inverno erano ancora tutte incurvate verso l’esterno, le foglie apicali erette e verticali a caccia della maggior quantità di luce disponibile.

Si fermò pochi secondi, verificando per la terza o quarta volta quella mattina che non ci fossero evidenti sfioriture o segni di sofferenza. Allungò una mano, accarezzando con piacere le foglie coriacee. Avvertì subito la scossa leggera tipica delle orchidee, simile a una serie di pizzicotti ritmici che sfiorassero i suoi polpastrelli. Le linee di forza erano al loro posto, le sentiva attraverso le dita fino alla spina dorsale. Assaporò la sensazione ancora per un attimo, poi si staccò con un piccolo sforzo.

Uscì dalla stanza scambiando poche parole con la segretaria e si diresse all’ascensore.

 

Quando aprì la porta della biblioteca, nella grande sala regnava il silenzio. Era un ambiente alto e spazioso, con la grande parete vetrata che rivelava una vista superba dei grattacieli vicini. L’Empire State Building svettava sullo sfondo, con la cima avvolta da nubi sfrangiate.

Le altre pareti della stanza erano occupate da un ampio scaffale di legno, alto sei metri e ingombro di libri. Tre scale scorrevoli, una per lato, interrompevano la continuità della biblioteca antica, in stile inglese vittoriano.

Il resto dell’arredamento, al centro della stanza, era costituito unicamente da un salotto dello stesso tipo. Vicino alla finestra, una lunga vasca di legno scuro conteneva una fila di cactus colonnari e di euforbie, alti quattro metri, che richiamavano le forme allungate dei grattacieli all’esterno.

Per un attimo credette che il giornalista non fosse nella stanza, ma poi sentì un rumore sommesso provenire da una delle poltrone di cui poteva vedere solo il retro.

Si avvicinò in silenzio, leggermente incuriosito, fino a vedere un uomo in abito grigio, seduto con le gambe incrociate in posizione comoda e rilassata. Stava sfogliando un libro che non riconobbe subito, mentre altri erano impilati sul tavolino di fronte a lui.

«Vedo che nell’attesa ha trovato qualcosa di interessante da consultare.» Disse, annunciando la sua presenza.

L’uomo si voltò immediatamente al suono della sua voce e il suo volto si aprì in un ampio sorriso mentre si alzava e tendeva la mano.

«Charles Page, molto piacere. Mi scusi ma ho dato un’occhiata a qualche libro, la sua segretaria mi ha detto che sarebbe arrivato nel giro di qualche minuto.»

«Non si preoccupi, ha fatto benissimo. James Russell…ma credo che la mia presentazione sia superflua. Credo che lei mi conosca molto bene.» Esaminò il suo interlocutore con l’occhio critico di una persona allenata alle pubbliche relazioni.

Un distinto signore di mezza età, più alto di lui di pochi centimetri. Il completo grigio scuro era sdrammatizzato con gusto dalla camicia azzurra e dalla cravatta colorata a piccoli disegni geometrici. Il viso dai lineamenti proporzionati rivelava un’indole curiosa ed era incorniciato da capelli brizzolati, tenuti un po’ lunghi.

«Effettivamente mi sono interessato a lei e ai suoi viaggi, su cui ho già scritto diversi articoli. La sua esperienza è assolutamente interessante.»

«Beh, come le dicevo al telefono si tratta solo di un semplice hobby, nessuna pretesa di tipo scientifico. Diciamo che per distrarmi dagli impegni di lavoro mi occupo delle mie piante, anche se a volte si tratta di una passione impegnativa.»

Il giornalista fece per sedersi nuovamente mentre lo ascoltava, ma Russell lo fermò con un gesto.

«Mi segua, la prego. Avevo pensato di portarla a visitare la mia serra, mi sembra di capire che anche lei sia un appassionato…»

«Ne sarò felice. Speravo che mi ci avrebbe portato ma non osavo chiederglielo, so quanto è riservato sull’argomento.»

Russell sorrise: «allora ha preso informazioni sul serio. Pochi sanno che possiedo una serra qui a New York. Effettivamente sono notizie che non divulgo volentieri, ma di solito gli ospiti che ricevo nei miei uffici pranzano con me all’ultimo piano. Ovviamente solo se apprezzano le piante. Il problema è che non sono molti: come immaginerà chi lavora a Broadway ama molto il denaro e il successo, ma quasi mai la natura.»

Page fece una risata sommessa, mostrando di apprezzare la battuta, poi disse: «benissimo. Mi dispiace aver messo fuori posto questi libri.»

«Non si preoccupi, ci penserò io più tardi. Possiamo salire.»

Page lo precedette verso l’uscita e Russell gettò uno sguardo alla pila sul tavolino, rimanendo subito turbato dalle sue scelte. Ve n’era uno antico sull’opera di Franz Anton Mesmer, il grande studioso viennese del magnetismo animale, vissuto nel settecento. Oltre a questo, due saggi sulla pranoterapia e un altro sull’elettromagnetismo vegetale.

L’inquietudine che aveva provato nel suo studio riaffiorò rapidamente, mentre si chiedeva perché avesse preso testi su quegli argomenti, invece che libri di botanica di cui la biblioteca era piena. Seguì il giornalista che si era fermato ad attenderlo alla porta e insieme si avviarono all’ascensore.

Mentre aspettavano, Russell chiese, scrutando attentamente la reazione di Page: «ho notato che stava leggendo libri sul magnetismo…mi sembra una scelta un po’ particolare. Le interessa l’argomento?»

«Effettivamente sì, e in realtà questo è il motivo per cui la volevo intervistare.» Il giornalista sembrava tranquillo, la sua espressione era priva di qualsiasi intento inquisitorio. Russell si rilassò un minimo, ma rimase vigile e attese altre spiegazioni.

«Mi sto documentando per un’inchiesta giornalistica sulle teorie esoteriche riguardanti la botanica, fra cui anche l’elettromagnetismo. Ho già studiato gli scritti di Mesmer, di Reichenbach e degli altri studiosi dell’argomento. L’idea mi è venuta dal libro di Tompinks, che conoscerà di certo. Si chiama “La vita segreta delle piante”: mi ha appassionato da subito e ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire. -

«Ah, Tompinks, sì. Mi sembra di averlo sentito.» Disse con noncuranza. «Ma perché è venuto proprio da me?»

Sul viso di Page si dipinse un’espressione stupita. «Un vivaista californiano mi ha parlato di lei qualche tempo fa, dicendo che possiede una delle collezioni di piante tropicali e di cactus più importanti d’America. Inoltre mi diceva che aveva approfondito l’argomento su cui sto facendo l’inchiesta.» In quel momento le porte dell’ascensore si aprirono, interrompendolo.

Il produttore decise che sembrava sincero, ma di sicuro troppo curioso. Lo precedette nell’ascensore che partì subito con un sibilo sommesso. In pochi secondi, il piccolo display digitale sopra alla porta mostrò il numero 32 e le porte scivolarono di lato: vennero investiti all’istante da una zaffata di aria calda, umida e pesante, in deciso contrasto con l’atmosfera fresca della biblioteca che avevano appena lasciato.

Mentre Russell entrava nella serra, Page fece due passi e si fermò, stupito dall’esplosione di luce e verde che lo colpì. Non aveva mai visto nulla del genere, nonostante avesse visitato buona parte dei più famosi giardini botanici degli Stati Uniti e dell’Europa.

L’intero ultimo piano del grattacielo era stato trasformato in una enorme serra di vetro alta dieci metri. La luce era violenta nonostante il cielo fosse ancora coperto e grigio. Di fronte a lui si stendeva una vera e propria foresta tropicale in miniatura che precludeva completamente la vista dell’esterno. Il suo sguardo corse sulle piante arboree che sfioravano il soffitto, sui grandi banani in primo piano, ornati da piccoli caschi di frutti giallo-verdi che terminavano nel tipico fiore rosso, simile a una lunga proboscide. Mazzi di orchidee fiorite spiccavano fra le fronde con le loro lunghe radici aeree, appoggiate sui fusti incurvati degli alberi. Al suolo, grandi arbusti di monstera dalle ampie foglie incise formavano una cortina quasi continua.

Page rimase letteralmente a bocca aperta, fermo sul posto, incapace di abbracciare con un solo sguardo tutta l’estensione della vegetazione rigogliosa che si trovava di fronte, aspettandosi da un momento all’altro di sentire il richiamo degli uccelli tropicali o di vedere una scimmia spuntare appesa a un ramo. Russell lo scrutava incuriosito, mentre spingeva alcuni bottoni in un quadro posto sulla parete di fianco all’ascensore.

Con un ronzio impercettibile, una rete oscurante si svolse vicino al soffitto coprendo il vetro, attenuando di qualche grado la luminosità troppo forte. Nel giro di pochi secondi, un paio di nebulizzatori posti in mezzo alla vegetazione emisero una fitta nebbia accompagnata da un sibilo deciso, per interrompersi poco dopo.

«Venga,» disse Russell «la serra non è tutta qui, mi segua.»

Si incamminarono su un sentiero di ghiaia ben evidente in mezzo alle piante, abbandonando la pavimentazione di pietra irregolare vicina all’ascensore. Mentre procedevano nel silenzio rotto solo dai loro passi sulla ghiaia, erano accompagnati dall’occasionale sibilo dei nebulizzatori che a intervalli irregolari emettevano vapore acqueo per mantenere alta l’umidità della serra.

Russell precedeva il giornalista, sfiorando le foglie per sentire le vibrazioni delle piante. Come sempre, camminare fra la vegetazione della serra ebbe su di lui un effetto calmante e si sentì subito rinvigorito, mentre la tensione data dalla presenza del giornalista si attenuava. A un certo punto si fermò, indicando a Page un gruppo di orchidee fiorite. Mentre parlava, raccontando del loro habitat, del viaggio in cui le aveva trovate e spiegandogli le proprietà curative che attribuivano loro gli indios amazzonici, appoggiò una mano al tronco di una palma. Avvertiva l’impulso magnetico sulla sua mano, immersa nelle linee di forza che circondavano il fusto: il flusso avvolgeva le dita e ne traeva forza, donandola a sua volta. Come a volte accadeva, le foglie si incurvarono impercettibilmente e un paio di loro sfiorarono i capelli di Russell, chiudendo le linee attorno al suo corpo. L’elettricità corse lungo la sua spina dorsale come una carezza sensuale.

Page si avvicinò ad esaminare le orchidee, allungando una mano a toccare le loro foglie. Sembrava ancora incredulo e il tono della sua voce lo confermò.

«Non conosco queste specie, nonostante abbia studiato molto le orchidee» disse con un accenno di stupore. «E tutto questo… non immaginavo che avesse una serra così grande qui in città. Le devo fare i miei complimenti.»

Russell non rispose, si era zittito di colpo quando aveva toccato la pianta, stupito. Per un attimo aveva sentito una strana vibrazione che era scomparsa subito, come una specie di ronzio sordo, fortemente disarmonico rispetto al pizzicore ritmico delle orchidee, che spesso riusciva ad avvertire anche senza toccarle.

Per cancellare la spiacevole sensazione che non seppe spiegarsi, riprese a camminare, finché non giunsero alla fine del sentiero. La serra finiva lì, ma era collegata ad una seconda, altrettanto grande, da un corridoio vetrato. Una porta a vetri rotante separava i due ambienti.

Non appena la superarono, entrambi avvertirono il cambiamento: la nuova serra aveva un’atmosfera molto più secca e calda, perché ospitava una superba collezione di piante succulente. Meno coreografica della precedente, era comunque impressionante: cactus e agavi di ogni dimensione crescevano su un substrato pietroso: riconobbe grandi saguari, cactus andini bianchi e barbuti, aloe con le foglie screziate e i caratteristici fiori composti, piccole lithops che si confondevano con i sassi sul terreno.

Di fronte a loro si apriva una piattaforma circolare di legno, su cui era sistemato un tavolo contornato da quattro sedie. Russell si sedette, facendo cenno al giornalista di fare altrettanto.

«Bene, se vuole può accomodarsi. Sono pronto a rispondere alle sue domande. Il pranzo sarà pronto fra un’ora, abbiamo tutto il tempo» disse Russell mentre il giornalista si guardava attorno. Sembrò tornare alla realtà con uno sforzo e fece la prima domanda, dopo aver estratto dalla tasca un piccolo apparecchio simile a un cellulare.

«Se vuole, può cominciare a parlare dei suoi viaggi e della sua passione per la botanica. Se non le dispiace registrerei la conversazione» disse Page, dopo aver acceso l’apparecchio ed aver estratto un taccuino nero dalla tasca.

«Non c’è nessun problema» replicò Russell con un accenno di indecisione nella voce. Doveva stare attento a ciò che diceva e la presenza del registratore lo mise un po’ a disagio, ma non poteva rifiutare o l’altro si sarebbe insospettito.

Con calma, facendo bene attenzione alle parole che usava, andò indietro con la memoria, raccontando la storia della sua passione per le piante. Cominciò a parlare dell’azienda agricola che il padre aveva nel New Jersey e delle sue esplorazioni giovanili in Central Park, di come era nato e cresciuto il suo interesse, già da quando era bambino.

Poi narrò dei primi viaggi alla ricerca dei cactus nei deserti messicani, sulle alte vette delle Ande e nelle aride pianure dell’Arizona. Raccontò delle spedizioni botaniche nella giungla amazzonica brasiliana e delle foreste del Costa Rica, di quando aveva cominciato a raccogliere le orchidee per collezionarle e propagarle. Parlò dei lavori che aveva intrapreso per trasformare l’azienda del padre in un vero e proprio vivaio di acclimatazione per quelle specie tropicali che erano diventate l’interesse di una vita, la passione per cui impiegava ogni momento libero al di fuori del lavoro.

Facendo attenzione, abituato dopo tanti anni a non scendere in dettagli rischiosi, evitò di parlare del suo dono naturale, che aveva scoperto quando era ancora bambino. In un modo che non aveva ancora compreso pienamente, poteva comunicare con i vegetali, avvertiva i loro flussi elettromagnetici ogni volta che li toccava e col tempo aveva imparato a influenzarne la crescita. Non disse che lo straordinario rigoglio della sua serra dipendeva dal rapporto simbiotico che si era creato fra sé stesso e le piante: condividevano gli stessi flussi di energia, traendo mutuo vantaggio. Loro crescevano in modo eccezionale, traendo dalla sua aura energetica una gran parte della forza vitale. Russell otteneva in cambio un beneficio psicologico e fisico che lo aveva portato ad eccellere nelle sue attività, si sentiva veramente vivo solo quando era in mezzo a loro. Da episodi accaduti nel corso degli anni, dopo aver convissuto a lungo, aveva capito che erano diventati strettamente dipendenti l’uno dalle altre, una sorta di unico organismo.

Page lo interrompeva spesso, chiedendo maggiori dettagli su qualche specie particolare o su episodi che riteneva interessanti. In molti dei suoi interventi cercava di portare il discorso sugli aspetti meno scientifici e più legati alle teorie esoteriche che aveva dichiarato di voler approfondire, ma in qualche modo Russell riusciva sempre a evitare gli argomenti più pericolosi, che era sicuro avrebbero rivelato le sue facoltà al giornalista.

Dopo diversi minuti, Page cominciò a dare evidenti segni di nervosismo per le manovre evasive del suo interlocutore. Il produttore lo intuì dalle sue pause e dal linguaggio del corpo: la sua espressione era tesa e cominciò ad agitarsi sulla sedia mentre poneva domande e annotava appunti sul taccuino.

Sicuro di poter gestire la situazione, continuò a depistare il giornalista che chiedeva le cose in modo più diretto e meno elegante, palesemente irritato. Ad un certo punto la sentì nuovamente: la sensazione sgradevole di poco prima, quando Page aveva toccato l’orchidea, si ripresentò, progressivamente più forte. Gli sembrò che fosse una specie di corruzione delle linee di forza, come se i campi elettromagnetici si incurvassero disperdendosi nel vuoto, invece di supportare con il loro influsso benefico la forza vitale delle piante. La corruzione si sovrapponeva alla bassa vibrazione emessa dai cactus che li circondavano, rompendone l’armonia, confondendo il suo senso dell’equilibrio. Cominciò ad avvertire un vago senso di nausea alla bocca dello stomaco.

«Mi sembra che in realtà l'argomento della mia inchiesta le interessi poco, Signor Russell.»

Evidentemente Page aveva perso la pazienza: la sua espressione era decisamente irritata, il tono tagliente.

«Le sto facendo domande esplicite da dieci minuti e non sta rispondendo a nessuna, continua a cambiare discorso. Allora glielo chiederò chiaramente. Lei crede in queste teorie? Secondo lei le piante possono emettere radiazioni, possiedono un'aura?»

«Ma certo che no, sono solo teorie di una setta di scienziati amanti della fantasia. Non bisogna dargli credito, la maggior parte di queste idee sono state confutate da studi più seri.»

«Scienziati amanti della fantasia. Non credo alle mie orecchie!»

Il volto di Page ora era decisamente arrabbiato e arrossato per il nervosismo.

«Forse, Signor Russell, le interesserà sapere che quel vivaista californiano l'aveva indicata come una delle massime autorità nel campo. Mi aveva assicurato che con lei aveva avuto conversazioni molto interessanti, da cui era chiaro che la sua esperienza personale andava al di là della semplice raccolta e coltivazione del materiale vegetale. Per questo sono venuto da lei, sperando che mi avrebbe spiegato. Evidentemente non ne ha nessuna voglia. Quindi me ne andrò subito. Si divertirà a leggere di sé sulle pagine del mio giornale.»

Page si alzò di scatto facendo cadere la sedia a terra con un incongruo tonfo nel silenzio della serra, senza curarsi di raccoglierla. In quello stesso momento, Russell avvertì che la vibrazione negativa si amplificava improvvisamente. La nausea era aumentata mentre Page pronunciava le ultime frasi, ma in quel momento la corruzione lo colpì come un pugno, facendogli rivoltare lo stomaco.

Ora poteva avvertire una sorta di grido di dolore provenire dai cactus più vicini, sotto forma di un violento influsso magnetico negativo.

E allora capì...

Era Page che emetteva la corruzione. Era attorniato da quell'impulso negativo che spezzava le linee di forza, disperdendole nel nulla. Arrabbiandosi, anche per così poco, non faceva altro che incrementare l’interferenza, provocando lo scioglimento del reticolo vitale.

Cercò di concentrarsi, nonostante il malessere: socchiuse gli occhi, fissando Page. In quel modo, a volte poteva vedere le linee di esemplari particolarmente vivi e carichi di elettricità. 

Ora guardò la sagoma indistinta del giornalista mentre afferrava il registratore e il taccuino con un gesto rabbioso e se ne andava, tornando verso l'ascensore. Vide vortici magnetici di un'intensità paurosa che lo avvolgevano, li osservò incapace di reagire, mentre tagliavano le linee dei cactus.

Russell non era più capace di articolare parola, annientato dal panico per il rischio che correvano le sue piante. Sentiva le linee perdersi e la forza vitale esaurirsi, mentre il dolore cresceva ancora.

Cercò di alzarsi per fermare Page: forse se l'avesse toccato anche solo per un attimo avrebbe potuto assorbire e annullare la forza negativa.

Ma anche la sua nausea stava aumentando insieme al grido di sofferenza delle sue creature, diventando un intenso dolore che gli bloccò i movimenti, raggiungendo un culmine insopportabile. Non riuscì ad alzarsi in tempo, Page aveva già oltrepassato la porta a vetri e stava diffondendo la corruzione nella serra delle piante tropicali.

Se li immaginò, come se li vedesse. I vortici neri assorbivano la fitta rete di linee che aveva coltivato e consolidato nelle due serre, danneggiandola irreparabilmente.

Quando l'onda di sofferenza lo investì, non poté fare altro che appoggiare la testa sul tavolo e piangere lacrime amare, per il dolore trasmesso dalla vegetazione e per la terribile morsa che aveva bloccato sé stesso.

 

La segretaria aveva visto il Signor Page uscire dall’ascensore come una furia. Si era fermato di fronte a lei e con uno strano atteggiamento fra l’ironico e la sfida le aveva detto poche parole.

«Il suo principale è di sopra, mi sembra che non stia molto bene» poi si era allontanato dalla sua scrivania, scomparendo fuori dall’ufficio.

Era salita immediatamente, con una vaga preoccupazione nel cuore indotta dalle parole del giornalista, mentre ripensava al periodo taciturno che il Signor Russell aveva vissuto negli ultimi giorni.

Susan era abituata alla vista della rigogliosa vegetazione della serra tropicale. Quando le porte dell’ascensore si aprirono rimase senza fiato: ai lati del sentiero le piante erano ingiallite, le foglie accartocciate sembravano bruciate da una forte fiammata e un vago sentore di fiori morti riempiva l’aria.

Preoccupata, corse attraverso il sentiero fino alla porta rotante, rincorsa dal rumore dei suoi passi sulla ghiaia.

Fu allora che lo vide, sdraiato sul tavolo al centro della spianata di legno, circondato da una corona di cactus marci che emanavano già un forte odore di decomposizione. Si avvicinò con le lacrime agli occhi, lentamente, temendo il peggio. Russell giaceva immobile e respirava piano, con gli occhi sbarrati su qualcosa che poteva vedere solo lui, disperato e sconvolto dal dolore, un rivolo di sangue che usciva dalla bocca a macchiare la camicia.

«Moriranno tutte…» mormorava «…moriremo tutti.»