Rivista Tratti n. 76
In seguito a uno dei primi corsi di scrittura che ho frequentato, il mio racconto “La vacanza” è stato pubblicato sulla rivista Tratti dell’Editore Moby Dick nel 2007.
Il corso è stato molto importante per la mia formazione da scrittore e continuo ancora a frequentare i compagni di avventura che mi avevano affiancato allora.
La vacanza
Mi sveglio lentamente.
Il petto mi fa male, un pulsare sordo.
Non so dove sono. Confusione.
Apro gli occhi, piano.
Stanza piccola, quasi buia, tranne per la luce rossa del tramonto che disegna ombre diafane sulle pareti. Un familiare ticchettio riempie la camera. Dalla porta socchiusa proviene un lontano brusio, come se ci fosse qualcuno nel corridoio.
Ora ricordo. Mi calmo.
Sono in ospedale, da solo, a letto.
Un ricordo mi riempie, all’improvviso.
Questa mattina.
Il Primario del reparto, un tipo grosso, sempre sorridente, è arrivato presto, trovandomi sveglio. Col suo modo diretto e affabile mi ha chiesto come mi sentivo, mentre occhieggiava la cartella clinica. Poi si è rivolto ai
giovani studenti in camice bianco che lo seguivano.
- Il Signor Bianchi sta meglio. L’ECG ha valori normali anche se rimane qualche sintomo di angina ...
Io ho ascoltato distrattamente, senza curarmi del significato delle sue parole, come facevo ormai da qualche giorno. Ho sorriso a una delle aspiranti dottoresse, nell’attesa che la visita terminasse.
Ormai mi è chiaro cosa ho, il medico me lo ha spiegato: il cuore non ce la fa più. È stanco.
Ho settantaquattro anni. E ho sempre fumato, tanto. Una sigaretta dietro l’altra, incurante dei buoni consigli di chi mi circondava. Ogni volta che mi dicevano di smettere ne accendevo subito un’altra.
Dubito che me ne andrò via da qui sulle mie gambe.
All’inizio l’idea mi faceva stare male. Ma adesso no, non più.
Forse me ne sono fatto una ragione. O magari sono stanco, come il mio cuore.
Voglio che mi lascino da solo, con i miei ricordi.
Non ho neanche voglia di parlare con qualcuno, tranne che con Francesco, quando viene a trovarmi.
Preferisco ricordare, lasciare la mente libera, nella penombra.
Sto fermo, penso, ascolto il ticchettio del mio vecchio orologio.
Il tempo.
Il tempo di oggi, adesso, è vuoto. Corre.
Ma quello passato no. È pieno, nella mia memoria. Mi fa compagnia.
Persone, ricordi, emozioni.
Mentre penso ritornano. Mi riportano a momenti passati.
Li accolgo come vecchi amici.
Tic tac ...
Io e Laura in un fienile solitario, in campagna, di notte.
La tenevo fra le braccia, accarezzandole la pelle con la punta delle dita, godendomi il suo calore. Nudi, stesi su una vecchia coperta in mezzo alla paglia. Lei dormiva. Avevamo appena fatto l’amore, ed era stato bello.
Come altre volte ero passato a prenderla, avevamo finto con tutti di andare al cinema e ci eravamo rifugiati lì, nel nostro posto.
La mia mente vagava libera, quando un pensiero estraneo alla mia natura prese il sopravvento sugli altri.
Avrei potuto stringerle la gola all’apice della passione. Sentire il battito del cuore, la sua vita scorrere sotto le mie dita. Assaporare il potere di fermarla con un gesto.
Avevo provato una strana forma di eccitazione mista a disgusto. Immagini perverse di violenza e sopraffazione nella mia mente.
Eppure ci avevo pensato a lungo, trattenendo l’eccitazione per paura di farle del male.
Quel sogno perverso non si avverò mai, ma per me divenne una sorta di ossessione, ci pensavo ogni volta che facevamo l’amore. Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo.
Un movimento nella luce rossa che filtra dalla tapparella. Le ombre delle foglie scosse dal vento improvviso si agitano sulla parete, creando riflessi confusi.
Mi giro e guardo fuori.
Tic tac ...
Il tempo era terminato. La fine dell’attesa, durata nove lunghi mesi.
A Laura si erano rotte le acque durante la notte. Ero corso subito a cercare il dottore, trascinandolo fino a casa senza dargli il tempo di vestirsi del tutto.
Mi aveva chiesto di entrare, ma non l’avevo fatto. Preferivo aspettare fuori.
Passeggiavo avanti e indietro nella luce nascente dell’alba. A farmi compagnia avevo solo una sigaretta storta fra le labbra e l’orologio che fissavo nervosamente. Ascoltavo ogni minimo rumore, fumavo e guardavo il tempo passare, contando i minuti che separavano un grido dall’altro.
Infine un urlo più forte, e un attimo di silenzio lunghissimo, terribile. E poi il pianto di mio figlio ... Gettai l’ennesima sigaretta appena accesa, dimenticai l’orologio. Volevo solo vederlo, abbracciarlo. Pochi minuti dopo la sorella di Laura me lo aveva portato.
Un piccolo volto dagli occhi chiusi, bellissimo, sconosciuto. Lo avevo stretto mentre frignava piano. All’orizzonte il sole era una palla rossa, la luce ci investiva.
- Francesco ... - avevo mormorato. Quello era il nome che avevamo deciso per lui, un nome antico e pulito. Che ti scorre nella bocca quando lo pronunci.
Con mio figlio fra le braccia il tempo aveva ripreso a scorrere, lento, piacevole.
Tic tac ...
Francesco ...
Ero al lavoro. Fissavo con rabbia il pezzo che strideva nella macchina tornitrice. Non lo avevo fissato bene, si era mosso alzando una pioggia di scintille, completamente rovinato.
Odiavo quel pezzo, durante tutti gli anni passati a quella macchina ne avevo lavorati così tanti che non li potevo più sopportare. E ora avrei dovuto ricominciare da capo. Tempo perso, andato.
Avevo mormorato una bestemmia a fior di labbra.
Ero troppo distratto, guardavo in continuazione la porta, poi l’orologio, aspettando di vederlo comparire.
Infine lui era entrato nell’officina. Mi aveva abbracciato, sorridendo.
- Assunto. Mi hanno assunto papà!!! Disegnatore dell’ufficio tecnico, a tempo indeterminato, da lunedì ...
Gioia. E un bruciore agli occhi a cui non ero abituato.
Lo avevo stretto forte, senza dire una parola.
Mio figlio era cresciuto, diventando migliore di me. Ero orgoglioso di lui... Quella volta il tempo aveva rallentato, solo per un attimo.
Tic tac ...
La nostra vita insieme. Io, lui e Laura. Tante esperienze condivise che ora rivivo, in silenzio, nel mio letto.
Così come i dolori.
Ricordo quando morì Antonio. Il nostro silenzio in macchina mentre tornavamo a casa.
Il solito tragitto, in mezzo al traffico. Come sempre guidavo io mentre Francesco sedeva a fianco. Il mio sguardo era perso a fissare la fila delle luci rosse, la pioggia tamburellava sulle lamiere dell’auto.
Laura aveva capito subito che qualcosa non andava. Ci era venuta incontro con uno sguardo interrogativo, accompagnata dal profumo della cena già pronta.
- Antonio ... - avevo detto con la voce spezzata - ... ha avuto un ictus mentre sollevava una cassa ...
Laura si era limitata a stringerci in un abbraccio. Forte.
Sapeva cosa significava Antonio per noi. Un collega e un amico. Forse il migliore che avessimo mai avuto. Lavoravamo insieme da quasi trent’anni.
Dopo, mentre le raccontavo l’accaduto, ero ancora preda dell’angoscia. Ma ogni volta che guardavo gli occhi di mia moglie avvertivo il suo amore, la forza che mi sosteneva.
Il tempo si era portato via Antonio.
Laura era riuscita a fermarlo per un po’, quella sera. Senza quell’abbraccio, il suo sorriso e le solite, piccole attenzioni sarei crollato di sicuro.
Apro gli occhi.
Il ticchettio riempie la stanza, il dolore al petto è intenso.
Ogni volta che ripenso ad Antonio mi fa un male cane.
Lo ricordo sorridente mentre pranziamo insieme, commentando i risultati delle partite di calcio.
Poi lo rivedo cadere di fronte a me come un vestito abbandonato, senza poter fare nulla per aiutarlo.
Antonio e Laura mi hanno lasciato solo.
Lei mi manca da morire. Il suo sorriso, il calore della sua voce ...
Mi chiedo per la centesima volta cosa troverò dall’altra parte.
Ho sempre creduto che non ci sia nulla. Il cervello non funziona più, il cuore si ferma, il tempo finisce.
Buio.
Ma pensare che mi stiano aspettando mi fa bene. Spesso li sogno, spero di rivederli. Staremo ancora insieme, felici. Il tempo si fermerà per noi.
Riesco a rilassarmi.
Ascolto l’orologio.
Tic tac ...
Ero in piedi, al suo fianco.
Lei vestita di bianco, raggiante, davanti all’altare.
Bellissima.
Io invece mi sentivo a disagio, sudavo. Un senso di soffocamento, strozzato dalla cravatta a cui non ero abituato.
Il prete di fronte a noi cantilenava in latino. A tratti mi guardava in modo severo, come se avesse capito tutto.
Non volevo farlo. Non volevo sposarmi.
Le chiese non mi erano mai piaciute, i preti mi facevano ribrezzo. Ero sempre sfuggito alla loro cieca disciplina.
Ma lei ci teneva, era credente. E il paese avrebbe mormorato troppo se non l’avessimo fatto.
"Finirà fra poco ..." pensai.
Laura mi guardò in quel momento, il suo volto si aprì in un ampio sorriso.
"Ti amo" fu il mio pensiero successivo, involontario.
Articolai le parole con le labbra, un po’ meno a disagio.
Distolse lo sguardo, imbarazzata.
Il tempo si fermò mentre la guardavo arrossire.
Sentii che in quel momento diventavamo veramente una cosa sola. Dio o la Chiesa non c’entravano, eravamo noi.
Solo noi.
Tic tac ...
Laura vestita di bianco, ancora una volta.
Però indossava una camicia da notte, non un abito da sposa. Era in un letto, nello stesso ospedale.
La vedevo in modo indistinto, fra le lacrime. Gli occhi chiusi, il respiro pesante, il volto segnato dalla sofferenza. Forse già oltre il limite del dolore.
Il tumore non le aveva lasciato scampo, in due mesi l’aveva ridotta così, ad attendere l’inevitabile morte come una liberazione.
Le ero sempre accanto, giorno e notte. A condividere i suoi ultimi minuti. Nonostante tutto avevo pregato per lei, perché guarisse. Ma sapevo che quella volta non sarebbe servito, il tempo non si sarebbe fermato.
Mentre stavo al suo fianco guardavo fuori dalla finestra i grandi alberi del cortile, piangendo in silenzio. I loro rami spogli sembravano le sue braccia, così magre dopo la malattia.
Riapro gli occhi.
Il petto mi fa male, ancora.
In un attimo sento più forte il peso che lo schiaccia.
La stanza mi gira attorno. Il respiro diventa affannoso, un rantolo strozzato che mi assorda.
Paura. Ancora la paura. E dolore.
Ho bisogno di aria.
Mi allungo per chiamare l’infermiera, cerco il pulsante, ma il fiato non mi basta, è troppo corto, faticoso. Il mio braccio ricade. La stanza ruota, sempre più forte.
Capisco che è la mia ora, che posso smettere di lottare. Lasciarmi andare.
Laura.
Penso a lei.
Ancora un rantolo nei polmoni.
Il petto fa male.
Il tic tac si allunga, sprofonda, rallenta sempre di più.
Il tempo si ferma. Definitivamente.
Mi sveglio lentamente.
Un orologio vicino fa rumore.
Sono confuso, non ricordo dove sono. Apro gli occhi, piano.
Stanza in penombra, quel poco di luce entra dalla porta socchiusa. Sento rumori sommessi provenire dal corridoio.
Ospedale.
Ricordi. Tic tac.
Sorrido. La crisi è passata. Sono vivo.
Cerco di mettere ordine fra i pensieri. Ascolto il ticchettio, mi aiuta a chiarire le idee.
Forse qualcuno mi ha soccorso. O mi sono solo addormentato.
Ma quando è stato? Era il tramonto, lo ricordo bene.
Faccio appena in tempo a girarmi per cercare l’orologio. Lo vedo di sfuggita sul comodino, ma è strano, non mi sembra il mio.
In quel momento la porta si apre. Entra una persona che accende la luce.
Indossa una tuta verde da sala operatoria, sporca di sangue. Ci sono schizzi sulle maniche, sul petto. Alcune macchie sono fresche, gocciolano ...
Il mio sguardo ha ignorato il volto di quell’uomo, calamitato dalla visione orribile di tutto quel sangue.
Solo ora scopro un viso sorridente, sulla cinquantina.
La muta domanda che legge nei miei occhi deve essere evidente, perché parla subito con tono ironico.
- Eh, già, al risveglio ci si sente un po’ strani. Però sarà meglio che ti riprendi subito, c’è un sacco di lavoro arretrato. Sistemati, vestiti. Qui ci sono le tue cose.
Non aspetta risposta, appoggia alcuni oggetti sul comodino e se ne va, salutando con un cenno distratto.
Sono confuso. Fisso la porta chiusa, le gocce rosse scivolate fino al pavimento. Solo dopo qualche tempo esamino quel che ha lasciato.
Indumenti verdi, puliti e stirati. Una casacca, pantaloni, zoccoli, una borsa di pelle che mi sembra familiare.
La apro, e incredulo ne scopro il contenuto.
Ferri chirurgici, bisturi, forbici, pinze, l’attrezzo per strappare le unghie, quello per tagliare i capezzoli.
I ricordi tornano come un’ondata. Talmente piacevoli da essere quasi dolorosi.
Avevo lavorato sodo, mi ero comportato bene. Le "mie" anime soffrivano molto, ero il più efficiente fra i miei colleghi demoni.
Il responsabile del settore mi aveva proposto un periodo di riposo come premio, un’intera vita umana, per rilassarmi e divertirmi. Avevo accettato, scegliendola insignificante, comune e modesta. Non ne volevo una particolare, o troppo impegnativa.
Mi ero addormentato, dopo un’iniezione.
Al risveglio avevo guardato mia madre. Piangevo.
Ero appena nato.
I ricordi della mia vita umana appena conclusa sono limpidi. Una lieve nostalgia mi prende mentre li ripercorro, come ho fatto nel mio letto di ospedale, prima di morire.
Mi scuoto, mormorando a bassa voce:
- Bene, è ora di tornare al lavoro. È stata una bella vacanza ...
Scendo dal letto e impugno un bisturi.
Avverto il freddo dell’acciaio tra le dita. Sento le urla di dolore, l’eccitante odore della disperazione che emanano i miei dannati. Vedo già la pelle aprirsi ai lati del taglio, quel momento di quiete che precede l’apparizione delle prime gocce di sangue.
Come un regalo atteso ma sempre nuovo.
Un senso di urgenza mi obbliga ad uscire di qui, subito. Non vedo l’ora di ricominciare.
Mi vesto in fretta, freneticamente, afferro la borsa con gli attrezzi.
Ma poi mi fermo. Sorrido.
Continuo con più calma. C’è tutto il tempo.
Tutta l’eternità.