Appesa a un filo
Luglio 2025
La bellezza è ovunque. L’ho sempre saputo.
L’ho capito già quando ero bambina: mi incantavo a contemplare la struttura perfetta di una ragnatela, come le foglie si innestassero a spirale sul loro fusto.
Ho sempre inseguito la bellezza, ma a causa tua non l’ho mai posseduta.
La colpa è stata dei tuoi muscoli da adolescente, Alfredo, dei capelli ricci che amavo arrotolare attorno al dito. Dei tuoi occhi verdi che mi hanno stregata dal primo momento.
Mi hai preso il cuore, l’hai frullato in un turbine di emozioni, poi ci hai giocato, crudele, fino a oggi.
Hai cominciato quando mi hai detto di averla messa incinta nell’estate della nostra Maturità, in quello che hai sempre chiamato un momento di debolezza. Poi l’hai sposata, e sono nati altri tre marmocchi, pietre che hanno sepolto la mia felicità.
Mi hai tenuta appesa al tuo filo, come un ragno che vorrebbe scappare, ma poi viene catturato un’altra volta da un bambino capriccioso.
Non so quante volte ci siamo incontrati da clandestini, quanti lenzuoli di anonime stanze d’albergo abbiamo intriso con il nostro sudore. Dopo, subito prima di tornare dalla tua famiglia, mi hai detto la solita bugia, sempre identica a sé stessa: «Ada, ti amo. Vediamoci presto, non posso stare senza di te.»
Mi sono sempre odiata per averci creduto, assuefatta alle tue parole ingannevoli. Dopo ogni incontro galleggiavo nell’aria, ti sentivo finalmente mio. Poi lo negavo quando non ti facevi sentire per mesi. Ti scrivevo lettere di fuoco, messaggi sul telefono, supplicando per rivederti il prima possibile. E infine, quando avevo perso ogni speranza, mi contattavi per un altro giro sul filo: una proposta telegrafica, poche ore, una giornata, raramente un fine settimana. Un altro albergo e di nuovo noi due.
Fra un incontro e l’altro ho lavorato duro per non pensarti, impegnandomi a testa bassa fra disegni e cantieri. Ristrutturazioni, interni, appartamenti, case, giardini. Posti donati alla felicità dei clienti che abitavano quei luoghi, io che la felicità la sfioravo solo potendoti accarezzare. Scegliere Parigi per vivere, lontano da te, dove la perfezione è di casa a ogni angolo. Molti viaggi, sfide professionali, edifici sempre più complessi da progettare.
Ora che è finita sono immobile nella chiesa gelida, sola come in tutto il resto della mia vita. L’odore di incenso mi soffoca il respiro, la campana a martello annuncia la fine della funzione, solenne e tristissima.
Mi trovo in piedi dietro a un banco anonimo, in fondo: i posti per conoscenti, intrusi privi del diritto di condividere l’intimità della famiglia.
Da parole, sguardi, abbracci inconsolabili, ho capito: tutti ti volevano bene. I tuoi figli ormai grandi, tua moglie che ho odiato per tutti questi anni, ma in fondo ho sempre trovato elegante, i vostri tanti amici.
Tuo fratello e altri sconosciuti si caricano sulle spalle la cassa dove ora riposi. Quando passi davanti a me, le lacrime sono un fiume. Se ne avessi il diritto ti abbraccerei un’ultima volta, o almeno vorrei accarezzare il legno liscio, come sfioravo la tua pelle.
Rabbrividisco mentre passano tutti, i tuoi per ultimi: riconosco il tuo figlio più piccolo, poco più che ventenne, occhi verdi, capelli neri. Mi sembra di rivederti da ragazzo.
Quando in chiesa rimangono solo poche persone, valuto le alternative in un lungo momento di indecisione.
Seguire il corteo fino al cimitero e rimanere in disparte come ho sempre fatto.
Affrontare tua moglie, rivelare che ci siamo amati in segreto da sempre, per la pura soddisfazione di farle male.
Sparire in silenzio, cercare un punto in alto e buttarmi di sotto per farla finita: la vita non ha più senso senza di te.
Sono ancora preda del dubbio quando tuo figlio torna indietro, cerca qualcuno: me, perché viene nella mia direzione.
«Signora Ada,» mi dice.
Il dubbio è diventato gelo, paura, terrore. Cosa vorrà questo giovane identico a te?
«Sono io.» Risposta fattuale, senza espressione.
«Mio padre mi ha parlato molto di lei. Di come gli sia stato vicino in tante occasioni difficili. Che vi siete conosciuti a scuola e la vostra amicizia non sia mai finita, nonostante viveste lontani.» Esita, vorrebbe forse aggiungere altro, ma ci ripensa. «Volevo solo ringraziarla di essere venuta.»
Mi stringe la mano prima che possa reagire, riannodare i pensieri che si sono perduti. Sparisce.
Quando mi riprendo, gli corro dietro. Mi fermo sul portone, ed è già troppo tardi. Sono andati via tutti in auto, anche lui.
“…la vostra amicizia non è mai finita…”: così ha detto.
Ripenso alle sue parole, all’improvviso mi guardo intorno, e le cose sembrano diverse: un bel sole mi scalda il volto sciogliendo il freddo, i tigli profumano l’aria, il cielo di primavera è blu intenso.
Mi chiedo se la vita può continuare. Forse mi libererò dalla tua presenza, e della tua mancanza.
Faccio un primo passo, poi un altro. Leggeri come zampe di ragno che corrono su una ragnatela robusta, dove tutti i fili reggono il mio peso.
Addio Alfredo, ti amerò sempre.