ANTOLOGIE
“Il cervo di Jula”
su “Socc’mel che bar”
Questa antologia delle Edizioni del Loggione del 2022 raccoglie i racconti vincitori del concorso “Socc’mel che bar”, parte di una serie di antologie tematiche per racconti ambientati a Bologna.
Il concorso vuole celebrare le storie infinite che si creano e si raccontano nei bar bolognesi, specchio di una città piena di testimonianze, costumi e abitudini spesso sconosciute.
Con il mio brano “Il cervo di Jula” ho voluto raccontare un episodio della mia adolescenza, quando i miti si creavano fra un giro di briscola e un’epica partita di biliardo.
Socc’mel che bar sul sito delle Edizioni del Loggione
Il cervo di Jula
Il Mugnaio alza la boccia bianca con la mano mutilata: la leggenda del bar vuole che se la sia schiacciata sotto una macina e che la farina sia diventata rossa di sangue. Al posto delle dita ha un blocco di carne, fabbricato di sicuro da un dottore pazzo. Quando gioca a biliardo però la sua presa è salda, sicura. All’improvviso si allunga sul tavolo, lancia la biglia. Il boccino blu vola con uno schiocco, abbatte tutti gli ometti, fa filotto. Sorride, poi prende un tiro dalla sigaretta e un sorso dall’onnipresente bicchiere di Montenegro, mentre il suo compagno Werter segna i punti con un ghigno.
Io e Sandro guardiamo la partita di fianco al biliardo: non possiamo giocare con i vecchi per ovvie questioni di gerarchia, ma non ci stanchiamo mai di seguire le loro gesta, cercando di imparare qualche nuovo trucco. Volute di fumo si alzano dalle sigarette, la lampada crea un cono di luce sul tavolo, mentre il resto dell’ARCI S. Rafel è immerso nella penombra. È una domenica pigra di fine inverno, fuori piove.
Il Mugnaio si disinteressa al tiro degli avversari, guarda in giro, per essere sicuro che tutti lo stiano ascoltando. «L’ho visto, un maschio adulto, con delle corna impressionanti. Era sotto alla chiesa di Jula, di là dal Savena. Ha cantato, proprio come fanno quando sono in amore, poi è sparito in mezzo al bosco.»
Sandro mi dà di gomito, sussurra: «te l’ho detto. Anche a scuola ne parlano tutti. Il cervo! Dobbiamo vederlo prima di Loro, fotografarlo: glielo sbattiamo in faccia, schianteranno d’invidia.»
“Loro” sono i nostri ex amici, con cui siamo cresciuti insieme ma che non frequentiamo più: stesso quartiere, stesse scuole, giocavamo insieme da piccoli, in strada. Però a un certo punto hanno scelto il posto sbagliato: frequentano il Bar Centauro, quello dei tossici. Brutta gente.
«Sei proprio un coglione, figurati se i cervi arrivano fino in città, qui a S. Ruffillo. Staranno sull’Appennino no? Non ci credo neanche se lo vedo.» Il mio tono si alza, irritato, perché so già dove vuole andare a parare. Diventerà la sua ossessione: a Sandro piace la competizione in ogni sua forma, deve sempre vincere, in qualche modo. Se decide che dobbiamo trovare il cervo non c’è Santo che tenga.
Fisso il Mugnaio, ci sorride soddisfatto, deve averci sentito. Poi impugna un’altra boccia, questa volta tira piano, per andare a punto.
«Stamattina c’era un articolo sul Carlino Bologna, con un titolone: “I cervi devastano le coltivazioni.” Ce ne sono troppi, quando ero nella squadra della caccia di selezione una volta siamo stati attaccati…» Otello, detto il Tecnico, è seduto in un angolo. Parte in una delle solite spiegazioni complicate che nessuno ascolta. Sa sempre tutto di tutto e come al solito dice la sua, assistendo alla partita senza mai giocare.
La porta si apre, il suono umido delle auto su Via Toscana precede Elia e Vale che entrano insieme. Lo sguardo mi cade su Barbara, la barista, unica femmina presente nel bar: è dietro al banco, asciuga dei bicchieri, li saluta con un sorriso. Per un lungo momento mi perdo nel movimento ritmico dei suoi seni, strizzati nella canottiera.
Andiamo incontro ai nostri compagni in mezzo ai tavoli delle carte. In un angolo tre o quattro pensionati ascoltano la telecronaca di Bologna – Reggina alla radio, lo sguardo perso nel vuoto. Un ragazzo che abbiamo visto qualche volta parla ad alta voce con una tipa al telefono a gettoni.
«Il Mugnaio l’ha detto: ha visto il cervo a Jula. Dobbiamo andarci appena smette di piovere.» Sandro non li saluta neanche, mentre io sono più educato e do un cinque a tutti e due.
«Anche adesso. Chissenefrega della pioggia?» Vale sorride, gonfiando i bicipiti sotto al maglione aderente. È sempre pronto a qualsiasi avventura, soprattutto in mezzo al bosco. Nel garage di suo padre fabbrica asce e coltelli che usiamo per farci strada fra le piante, a ogni uscita deve abbattere almeno due acacie per provarne la lama.
«Ve l’ho detto, per me sono tutte balle. Mai visto un cervo dalle nostre parti.» Se do corda a questi tre, poi va a finire male. «Tu cosa dici Eli?»
I suoi occhi neri mi guardano, si illumina. «Non so del cervo, ma magari potremmo andare a pesci sabato prossimo.» Non a caso lo chiamiamo Sampei, come il giovane pescatore dei cartoni.
«Cris è tardi, dobbiamo andare.» Mio padre si è avvicinato, mi richiama. Saluto tutti, usciamo all’umido, torniamo a casa.
A scuola è stata una settimana lunga: la seconda superiore è difficile e con i compagni non mi trovo bene, sono troppo diversi dagli amici di San Ruffillo che conosco come le mie tasche.
Entro all’ARCI con una gran voglia di rilassarmi, assaporando l’odore di caffè e fumo stantio. Ci vado da quando avevo otto anni e seguivo Papà nel fine settimana. È divertimento puro, a volte proibito: il posto dove ho imparato a tenere in mano un mazzo di carte, ad ascoltare meravigliato le mille storie dei vecchi, a far frullare la palla nel biliardino o nel flipper. Dove perdiamo ore a giocare ai videogiochi fino al fatidico “Game over”.
Ci sono tre tavoli occupati, di cui uno dai miei amici. Agli altri, le solite partite a tressette degli adulti, dove busso, striscio e volo si sprecano. Otello sorseggia da un bicchiere ingiallito mentre parla al bancone con Barbara, il suo sguardo le naviga nella scollatura. Come sempre sono troppo timido per rivolgerle la parola, li saluto con un cenno veloce.
«Non ci siamo, ragazzi! Sono passate due settimane e ancora nulla. Lappa alla ricreazione ha detto che lo hanno beccato al Paleotto, ma per nostra fortuna non avevano la macchina fotografica. Possiamo ancora farcela.» Vale ha parlato, ha lo sguardo deciso di quando si mette in testa qualcosa: come temevo Sandro è riuscito a convincerli tutti e due a dare la caccia all’animale. L’unico col sale in zucca sono io. Barbara ci passa vicino, il suo profumo ci avvolge per un attimo. Le ordiniamo una Tassoni.
«Basta con queste stronzate: al Bristol danno quel nuovo film, Terminator, con Schwarzenegger. Andiamo a vederlo domenica?» Lo dico di proposito, speranzoso. Solo film e popcorn al cinema parrocchiale, il nostro preferito, possono distrarli da questa idea assurda.
«Non se ne parla Cris, dobbiamo trovarlo prima noi. Dai le carte, valà.» Mi metto a rimescolare in silenzio, un’espressione mesta. Non c’è proprio verso.
Mentre giochiamo a briscola ne parlano eccitati, non si accorgono neanche che non partecipo alla conversazione. Continuo a chiedermi perché non possiamo fare le cose semplici che ci sono sempre piaciute. L’altro giorno avevo suggerito di andare a giocare a ping pong dal Prete, ma mi hanno obbligato a seguirli su per Jula in mezzo al fossatone, con i piedi immersi nel fango.
Ho passato la settimana a cercare di studiare per materie assurde di cui non capisco nulla, ma mi chiamavano di continuo per uscire e cercare il maledetto cervo: non potevo dirgli di no. Di sicuro i Prof mi interrogheranno e farò scena muta, così i miei mi chiuderanno in casa.
Per fortuna ha smesso di piovere, ma prima c’è stata la piena del fiume: siamo stati sulla riva a guardare passare un flusso continuo di schiuma, mobili, pezzi di plastica. A un certo punto ci è sfilata di fronte persino una lavatrice trascinata dalla corrente, ma dell’animale neanche l’ombra.
Un’altra sera abbiamo fatto così tardi a cercarlo che è diventato buio: sono dovuto correre giù per la scala a fianco della chiesa, dove c’erano due drogati che avevo intravisto al Centauro, si stavano bucando lì davanti a tutti. Sono scappato terrorizzato.
Intanto di fianco a noi un gruppo di ragazzi più grandi si è messo a fare a gara di braccio di ferro. Sono eccitati, si spingono e si colpiscono a vicenda, dandosi pugni sulle spalle. Poi all’ennesima gara uno dei due crolla sul tavolo, sconfitto.
Offeso, esclama: «Ma non si può, sei andato di corpo!»
«Sì, a cagare!» Urla un altro.
Ridono tutti come dei matti, anche i miei amici. Io no, sono troppo irritato, arrabbiato: nessuno di loro capisce come mi sento. Se almeno Barbara per una volta mi degnasse di uno sguardo.
Mollo le carte sul tavolo, trattenendomi dal lanciargliele in faccia. «Mi avete fatto passare la voglia, me ne vado.»
Nei giorni successivi li evito, soprattutto se sono tutti insieme: sono sempre di pessimo umore, lo ha notato anche Mamma, che per risolvere insiste a darmi vitamine e pappa reale.
Quando entro all’ARCI, da solo o con Papà, provo un senso di delusione, lo vedo con occhi diversi: non più il posto dove condividere risate e scorribande. È solo uno squallido bar di periferia: mi accorgo delle facce tutte uguali dei pensionati che ci passano le giornate, le solite sciarpe impolverate del Bologna sopra al bancone, i panni consumati dei biliardi e l’odore nauseante dei bagni.
Barbara era una ragione di più per andarci, ma ora mi sembra strana, vecchia. Da quando ho cominciato a fantasticare su di lei, il suo trucco pesante mi ha sempre affascinato. Adesso lo trovo solo volgare. Non mi parlerà mai, ma non me ne importa.
Una mattina mi sveglio prima del solito, non ho dormito bene.
Uscire dal letto è stata una liberazione. Ho un vago ricordo dell'incubo dove i protagonisti erano i tossici che ho visto di fianco alla chiesa: mi correvano dietro con le siringhe in mano.
Esco di casa in mezzo alla nebbia, prendo la solita strada che mi porta davanti all'ARCI. La serranda è semi abbassata: forse Barbara sta sistemando le paste fresche appena arrivate, ma non mi azzardo a sbirciare. Continuo sul Ponte Savena, per andare alla fermata dell’autobus che mi porterà a scuola. Quando sono in mezzo al ponte si alza il vento, mi fa rabbrividire, porta via la foschia per un attimo.
Un movimento attira la mia attenzione: in mezzo al prato, proprio sotto a Jula, lo vedo.
È maestoso, con le corna a palchi, cammina lento e bruca l'erba guardingo, come se fosse il padrone del mondo. A un certo punto sembra fissarmi da lontano, alza la testa, il suo respiro si solidifica in uno sbuffo di fumo. Il suono selvatico arriva in ritardo a causa della distanza: ha cantato, proprio come l’ho immaginato dalle parole del Mugnaio.
È un momento, poi scende verso il fiume. Scompare, torna a essere un pensiero, una leggenda urbana di periferia, dove la natura fa a botte con la città.
Sorrido, immobile sul ponte.
Provo un misto di trionfo e nostalgia, come per una cosa attesa da tanto tempo che arriva e poi sparisce all’improvviso. Decido subito che questo incontro non lo racconterò a nessuno, soprattutto ai miei amici.
Il ricordo del cervo deve rimanere solo mio. Riprendo a camminare, sperando che mi dia la forza di cambiare: fare pace, ricominciare a uscire con loro, trovare il coraggio di parlare con Barbara. O magari con la biondina della prima D che mi ha guardato l’altro giorno.